“Zabut” Cinema Avorio Giov 22 Settembre

Cortometraggio di Giuseppe Schillaci

NOTE DI REGIA

 

La genesi, in Sicilia. Sono cresciuto con due zie zitelle, nella loro bottega di sartoria, in un quartiere popolare di Palermo. Li è nata la mia passione per le storie, in quel mondo matriarcale in cui la donna era, di volta in volta, strega o santa, guardiana o insidia dell’ordine patriarcale. In quei racconti femminili, la natura e gli esseri umani erano animati da forze magico-religiose, rituali, credenze, dicerie. Io osservavo, ascoltavo, e la mia immaginazione sovrapponeva figure e suoni a quelle storie di desideri, amori impossibili e repressioni. Da quel mondo ancestrale, seppur cosi vivo e presente, è nato il mio primo romanzo (“L’anno delle ceneri”, Nutrimenti Edizioni, candidato al Premio Strega nel 2010) e nasce oggi Zabut, il mio esordio nel cortometraggio di finzione, dopo anni di cinema documentario. 

Genius loci. Ricordo bene il giorno in cui misi piede nel casale di Sambuca di Sicilia (di cui Zabut è l’antico nome arabo) durante i sopralluoghi per un videoclip. Era un giorno d’estate del 2019: alle pareti, diversi ritratti fotografici di una donna di fine Ottocento, lo sguardo fiero e penetrante; capii subito che era la matriarca di quelle terre alle pendici dei monti Sicani, da cui sgorgava continuamente una fonte d’acqua gelida.  Ebbi la percezione di sentire il vissuto di quella casa, le generazioni di donne che l’avevano abitata, le loro paure, le loro passioni.

Un’esplorazione della maternità e del desiderio. Il casale di Zabut è cosi diventato un santuario della Dea Madre (Artemide, Kore, Maria), custode della vita e della morte. Le potenze matrilineari fanno eco alle angosce legate alla fertilità e al piacere femminile, incoraggiando la protagonista a riscoprire il proprio corpo, la sua natura animale. Nunzia si perde nei meandri del casale, nella stanza della matriarca, col suo misterioso ex voto, e nel laboratorio della madre, dove quest’ultima sembra officiare rituali taumaturgici per la figlia.  Nel giro di qualche giorno, angoscia e piacere, repulsione e attrazione, s’intrecciano in un crescendo erotico, fino a una catarsi che sa di prodigiosa guarigione.

La messa in scena e la fotografia. La macchina da presa s’identifica con lo sguardo e le visioni di Nunzia, sovrapponendo sogno e realtà. L’immagine organica della pellicola super 16, grazie alla complicità della direttrice della fotografia Clarissa Cappellani, cerca un’atmosfera carnale e autentica, dai colori primari, mentre l’alternanza tra macchina a spalla e quadri contemplativi, dettagli e campi lunghissimi, evoca la tensione di Nunzia. I riferimenti pittorici alla pittura barocca del Seicento, e in particolare alla ”Danae” d’Artemisia Gentileschi, si affiancano a quelli cinematografici degli anni 60 ( “La donna di sabbia” di Hiroshi Teshigahara) e fotografici (le immagini del francese Antoine D’agata, su cui ho realizzato il documentario “The Cambodian Room”, Premio Speciale della Giuria al Festival di Torino nel 2009). 

Il suono e la musica. L’ambiente sonoro del casale si fonde con quello della natura selvaggia siciliana, cosi come l’audio di presa diretta compenetra la musica composta da Gianluca Cangemi. Sento il casale, coi suoi oggetti e le sue atmosfere, come un unico organismo percettivo, integrato nel paesaggio. Una nenia popolare sostiene le sequenze notturne e giunge  al suo culmine nella scena della processione, in cui il tema musicale s’intreccia con un canto sacro pasquale, eseguito dai “Ladatura di Marianopoli” (un paese dell’entroterra siciliano), a evocare la resurrezione del corpo di Nunzia.